Dello stesso autore

La “Madonna del zocco” a Grisignano Padova

Beethoven – Egmont Overture

Egmont (op. 84) è una musica di scena scritta da Ludwig van Beethoven per l’opera omonima di Johann Wolfgang von Goethe. È stata composta fra l’ottobre 1809 e il giugno 1810 ed è stata eseguita per la prima volta il 15 giugno 1810. È costituita da una ouverture e da nove pezzi indipendenti per soprano ed orchestra sinfonica.
Soggetto dell’opera è l’eroica storia del conte di Egmont, che sacrificò la propria vita per manifestare il suo attaccamento alla patria olandese in occasione della repressione spagnola attuata dal duca d’Alba nel 1568.
L’eroismo ed il sacrificio del conte sono messi bene in rilievo dalla musica di Beethoven, che è stata elogiata da Hoffmann e da Goethe stesso.

Risorse infinite

” Ho conosciuto il maligno e scoperto Dio. Ne parlo come della mia scoperta, ma va da sé che non si tratta di niente di nuovo , né di mio appannaggio esclusivo. Ciascuno vive qualcosa di analogo prima o poi. Usiamo solo modi diversi per dirlo.  Secondo me, tutte le grandi religioni nascono da singoli individui che si sono ritrovati in contatto con una realtà spirituale e che si sono sforzati in seguito di mantenere vivo quel sapere. Quasi tutto si perde in dogmi, cerimoniali e gerarchie. La religioni sono fatte così. Ma alla fine ha ben poca importanza l’esposizione del concetto se si è afferrata la verità essenziale, e cioè che dentro ognuno di noi ci sono risorse infinite, il potenziale per una condizione dell’essere superiore, un fondo di bontà…Roba del genere l’avevo già sentita, in questa o in altra forma, da un preside particolarmente ispirato o da un parroco stravagante, da una vecchia fiamma di ritorno dall’India, da bambini di Dio californiani o da figli dei fiori fuori di testa. June mi vide agitarmi irrequieto sulla sedia, ma non accennò a fermarsi.  -Chiamala Dio, o spirito d’amore, o l’atman o Cristo o legge di natura. Quel che ho visto quel giorno e molti altri giorni da allora, fu l’aureola di luce colorata che circonda il mio corpo. Ma la visione è di secondaria importanza. Ciò che conta è stabilire un legame con il proprio centro interiore, con l’essere che abbiamo in noi, per poi estenderlo e approfondirlo. E portarlo fuori per donarlo agli altri. Il potere terapeutico dell’amore ….Il ricordo di ciò che accadde a quel punto non ha cessato di addolorarmi. Non potei trattenermi, il mio disagio era troppo intenso. Non ce la facevo ad ascoltare oltre. Forse gli anni di solitudine  sono stati terreno fertile per il  mio scetticismo, la mia difesa contro gli squilli di tromba che richiamano all’amore, alla purificazione, a liberarsi del nocciolo duro del proprio egoismo per vederlo dissolversi nel tiepido latte dell’amore e della carità universali. E’ il genere di discorso che mi fa arrossire. Quando qualcuno parla così sussulto. Non lo capisco, non ci credo. …..”

tratto da: “Cani neri”, Ian Mc Ewan, Tascabili Einaudi, pg.53

Odio gli indifferenti

Interessante  su tema dell’indifferenza, due stati di consapevolezza diversi, come li propone  San Ignazio  e Gramsci in quest i due  testi apparentemente inconciliabili, ma veri entrambi, necessari oggi per attraversare la crisi che stiamo vivendo.

“Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E’ la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano. I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere. Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

tratto da:” La città futura”, Antonio Gramsci11 febbraio 1917

Il gesuita

Ecco Ignazio nei suoi Esercizi. ” E’ perciò necessario renderci indifferenti rispetto a tutte le cose create, in tutto quello che è lasciato al nostro libero arbitrio  e non gli è proibito; in modo che, da parte nostra, non vogliamo più salute che malattia, ricchezza che povertà, onore che disonore, vita lunga che breve, e così via in tutto il resto; solamente desiderando e scegliendo quello che più ci conduce al fine per cui siamo creati”. L’indifferenza gesuitica è concetto teologico vertiginoso, e spunto mistico di strabiliante bellezza e modernità. Il Cardinal Martini, Carlo Maria, era un leale oppositore del magistero ratzigeriano, e del complesso tragitto compiuto dalla chiesa di Giovanni Paolo e del suo successore, proprio in virtù di questa “indifferenza”. …. In tutto ciò che riguarda la nostra libertà, ad eccezione delle prescrizioni e proibizioni concernenti il male assoluto, si può e si deve conquistare questo campo dell’indifferenza relativista, una mentalità analitica e discreta, aperta alla variazione del tempo e alla speranza che ogni variazione e novità contiene”

tratto da: IL GESUITA, “IL FOGLIO quotidiano”, sabato 1 settembre  2012, G.Ferrara

Ginkgo Biloba

Ginkgo Biloba

Il gioco del Nim

La teoria del gioco di Nim è stata scoperta nel 1901 da Charles Bouton professore all’università di Harvard, anche se si ipotizza che abbia avuto origine in Cina. Il nim è un gioco matematico per due giocatori. La strategia del gioco si basa sulla distinzione tra posizioni (o configurazioni) sicure e insicure. Una configurazione si dice sicura se la somma nim delle rappresentazioni binarie degli elementi delle pile dà 0; altrimenti si dice insicura. La strategia vincente consiste nel lasciare all’avversario, ad ogni mossa, una configurazione sicura. È sempre possibile raggiungere una posizione sicura a partire da una insicura (e viceversa), mentre è impossibile ottenere una posizione sicura partendo da una configurazione sicura.

 

L’anno scorso a Marienbad Alain Resnais

 

Virginia Woolf

Nell’estate del 1940 pubblica l’ultima opera; Tra un atto e l’altro, mentre la Gran Bretagna è in guerra. Intanto le sue crisi depressive si fanno sempre più violente e incalzanti. Virginia ama circondarsi di persone ma quando è sola ricade nello stato d’ansia e di sbalzi d’umore tipico della malattia. A contribuire all’aumento delle sue fobie è il procedere della guerra. Infine il 28 marzo del 1941, si riempì le tasche di sassi e si lasciò annegare nel fiume Ouse, non lontano da casa, nei pressi di Rodmell. Lasciò una toccante nota al marito:

(EN)

« Dearest, I feel certain that I am going mad again. I feel we can’t go through another of those terrible times. And I shan’t recover this time. I begin to hear voices, and I can’t concentrate. So I am doing what seems the best thing to do. You have given me the greatest possible happiness. You have been in every way all that anyone could be. I don’t think two people could have been happier ’til this terrible disease came. I can’t fight any longer. I know that I am spoiling your life, that without me you could work. And you will I know. You see I can’t even write this properly. I can’t read. What I want to say is I owe all the happiness of my life to you. You have been entirely patient with me and incredibly good. I want to say that – everybody knows it. If anybody could have saved me it would have been you. Everything has gone from me but the certainty of your goodness. I can’t go on spoiling your life any longer. I don’t think two people could have been happier than we have been. V »
(IT)

«  Carissimo, sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai lo so. Vedi non riesco neanche a scrivere questo come si deve. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi. V. »

Tilda Swinton, Billy Zane – Orlando (1992)

Orlando – scena labirinto

Siamo nell’Inghilterra di Elisabetta I. Orlando è un affascinante nobile. La bellezza e l’ambiguità dei suoi tratti sono armi in grado di conquistare la regina, che infatti lo introduce a corte. Lì Orlando, divenuto il prediletto di Sua Maestà, vive attorniato dal lusso, e alla morte di Elisabetta I rimane a corte al servizio di re Giacomo I. L’Inghilterra e gran parte dell’Europa vengono travolte da un’ondata di gelo e durante questo periodo di irreale biancore Orlando incontra la bella Sasha, figlia dell’ambasciatore di Russia, della quale si innamora perdutamente e per la quale lascia ogni cosa. Ma il loro amore non durerà a lungo, e Orlando si rifugerà nell’unico luogo dove si sente a suo agio: la sua casa natia. Un sonno lungo una settimana lo colpirà, e al risveglio partirà in veste di ambasciatore alla volta dell’Asia. Cade nuovamente in un nuovo lunghissimo sonno, ma al suo ridestarsi deve fare i conti con una verità sconvolgente: scopre infatti di essersi risvegliato nel corpo di una donna. La cosa non sembra stupirlo, Orlando considera l’accaduto come una opportunità e sceglie di vivere per un po’ di tempo con un gruppo di zingari tra i quali la donna è tenuta di gran lunga più in considerazione che non in Inghilterra. Orlando-donna tornerà a Londra, dove imparerà ad amare la poesia scoprendo la sua vocazione per le lettere, e farà della propria casa un luogo di ritrovo per intellettuali e poeti. Si innamorerà poi di Lord Bonthrop Shelmerdine, un avventuriero incontrato per caso: la storia di Orlando si conclude nel 1928, lei è una scrittrice di fama e il suo romanzo La quercia conserva atmosfere e luoghi vissuti nella sua lunga vita…
“Ieri mattina ero disperata, non riuscivo a spremere una parola, alla fine mi sono presa la testa tra le mani, ho intinto la penna nell’inchiostro, e ho scritto queste parole quasi meccanicamente, sul foglio bianco: Orlando. Una biografia. Appena fatto questo, il mio corpo è stato invaso dall’estasi, la mia mente da idee”. Queste le parole che Virginia Woolf esattamente il 9 ottobre del 1927 scrisse in una lettera indirizzata a Vita Sakville West, la donna con la quale Virginia Woolf ebbe una storia d’amore, l’amica con la quale condivise gran parte della vita. E Orlando a pieno diritto può essere considerato una lunghissima lettera d’amore, scritta dalla Woolf per rendere immortale la figura di Vita, per rendere eterno il suo fascino ambiguo e prepotente, per lasciare una testimonianza eccellente di un amore mai dimenticato. Per un anno intero il libro diventerà infatti un gioco privato tra le due donne: alla notizia che Virginia avrebbe scritto di-per-su di lei, Vita ne fu incantata e non si preoccupò minimamente del fatto che grazie alla dedica e alle fotografie che Virginia voleva inserire avrebbe potuto essere riconosciuta. Al contrario l’aiutò a sceglierne di adatte e le raccontò aneddoti e ricordi legati al proprio vissuto. La Woolf tra le pagine di Orlando dissemina la sua strenua difesa dell’idea che l’essere umano è essenzialmente androgino, la sua convinzione che in ogni persona convivano una parte maschile e una femminile entrambe da esplorare con naturalezza, e non manca di far pesare il suo punto di vista sulle scelte della politica e del costume, sottolineando con ironia il mancato ruolo della donna nella società a lei contemporanea. Orlando è un libro che convinse tutti e che la consacrò nell’olimpo degli scrittori del suo tempo: alla sua uscita infatti fu accolto trionfalmente sia dal pubblico che dalla critica, e la stessa Woolf – sempre severa verso il proprio lavoro – non poté non riconoscere l’originalità dello stile usato, della composizione, del tema.

Elena Torre

Altra antica invocazione al Santo

Secondo la tradizione popolare, per un’altra  preghiera particolare il Santo di Padova è famoso. Meno conosciuta forse dei “Si quaeris” fu donata da san Antonio a una donna che cercava aiuto dalle tentazioni del demonio. Il francescano Papa Sisto V, la fece scolpire alla base del’obelisco da lui fatto erigere a Roma in piazza San Pietro.

Ecce Crucem Domini!
Fugite partes adversae!
Vicit Leo de tribu Juda,
Radix David! Alleluia!

Ecco la Croce del Signore!
Fuggite forze nemiche!
Ha vinto il Leone di Giuda,
La radice di Davide! Alleluia!

 

Si quaeris

 

Il Sequeri è una forma di preghiera popolare cristiana che la tradizione consiglia per recuperare le cose perdute.  Deriva il suo nome dalla storpiatura del latino: “si quaeris miracula“, parole iniziali del responsorio a San Antonio, invocato dal popolo per trovare un oggetto smarrito. L’invocazione chiede a  Dio, attraverso l’intercessione del Santo, protezione contro le calamità, il pericolo della morte dell’anima, le malattie, il demonio che occorre riconoscere sempre. Allora anche il mare obbedisce e le forze della natura tornano ad essere in armonia con l’uomo. Ricordiamo che il giovane Antonio di Lisbona era un francescano, e come Il Santo umbro, venerava Dio nella natura, negli uomini, nell’universo intero che ci circonda. Non trovare un oggetto, essere preda di un qualsiasi malanno è una forma di disarmonia che l’uomo vive con sofferenza e dolore. La preghiera sana e eleva l’uomo, caccia gli spiriti bassi che ci vogliono ancorare a una realtà pesante e niente affatto spirituale.

« Si quaeris miracula
mors, error, calamitas,
demon, lepra fugiunt
aegri surgunt sani.

Cedunt mare, vincula:
membra, resque perditas,
petunt et accipiunt
juvenes et cani.

Pereunt pericula,
cessat et necessitas,
narrent hi qui sentiunt,
dicant Paduani.

Cedunt mare, vincula…

Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto…

Cedunt mare, vincula… »

«Se brami i miracoli,
la morte, l’errore, le calamità,
il demonio, la lebbra fuggono,
mentre i morti sorgono già risanati.

Il mare obbedisce,
s’ infrangono le catene,
giovani e vecchi ottengono
l’uso delle membra e delle cose perdute.

I perigli avrai lontani,
la miseria sparirà;
ben lo sanno i Padovani,
preghi ognun e proverà!

Il mare obbedisce,
s’ infrangono le catene,
giovani e vecchi ottengono
l’uso delle membra e delle cose perdute.

Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo
come era nel principio ora e sempre »

If, then, thou seekest miracles,
Death, error, all calamities,
The leprosy and demons flee,
The sick, by him made whole, arise.
Ant: The sea withdraws and fetters break,
And withered limbs he doth restore,
While treasures lost are found again,
When young or old his help implore.
All dangers vanish from our path,
Our direst needs do quickly flee:
Let those who know repeat the theme:
Let Paduans praise St. Anthony.
Ant: The sea withdraws and fetters break,
And withered limbs he doth restore,
While treasures lost are found again,
When young or old his help implore.
To the Father, Son let glory be, And Holy Ghost eternally.
Ant: The sea withdraws and fetters break
And withered limbs he doth restore,
While treasures lost are found again,
When young or old his help implore.

http://www.cantualeantonianum.com

 

Visioni ghoetiane all’arrivo in Italia

11 settembre, sera
Eccomi a Rovereto, punto divisorio della lingua; più a nord si oscilla ancora fra il tedesco e l’italiano. Qui per la prima volta ho trovato un postiglione italiano autentico; il locandiere non parla tedesco, e io devo porre alla prova le mie capacità linguistiche. Come sono contento che questa lingua amata diventi ormai la lingua viva, la lingua dell’uso!
Torbole, 12 settembre, dopo pranzo
Quanto vorrei che i miei amici fossero per un attimo accanto a me e potessero godere della vista che mi sta dinanzi! Stasera avrei potuto raggiungere Verona, ma mi sarei lasciato sfuggire una meraviglia della natura, uno spettacolo incantevole, il lago di Garda; non ho voluto perderlo, e sono stato magnificamente ricompensato di tale diversione. Poco dopo le cinque partii da Rovereto e presi per una valle laterale, le cui acque scendono all’Adige. Quando si arriva in cima, si vede sporgere da dietro un enorme sbarramento roccioso, che bisogna oltrepassare per scendere al lago. Qui ho visto bellissime rocce calcaree per uno studio di pittura. Giunti in basso, si trova un paesello affacciato all’estremità settentrionale del lago con un piccolo porto, o per meglio dire un approdo, chiamato Torbole. Lungo il cammino gli alberi di fico mi avevano già tenuto spesso compagnia, e quando scesi giù per l’anfiteatro di roccia trovai i primi ulivi carichi di olive. Qui incontrai anche per la prima volta, come frutto ordinario, i piccoli fichi bianchi che mi aveva promesso la contessa Lanthieri. Dalla stanza dove mi trovo una porta conduce al cortile sottostante; vi ho spinto davanti la tavola e ho disegnato a grandi linee il panorama. Si vede il lago per quasi tutta la sua lunghezza; solo in fondo a sinistra esso si sottrae al nostro sguardo. Ambedue le rive, incassate fra colline e montagne, risplendono di innumerevoli piccoli paesi. Dopo la mezzanotte il vento soffia da nord verso sud; perciò, chi vuole discendere il lago deve partire a quell’ora, poiché i venti cambiano direzione qualche ora prima del sorgere del sole e soffiano verso nord. Adesso, di pomeriggio, il vento mi spira decisamente all’incontro e attenua gradevolmente la vampa del sole. Nello stesso momento il Volkmann m’informa che questo lago un tempo si chiamava Benacus, e cita un verso di Virgilio che lo ricorda: Fluctibus et fremitu resonans Benace marino.
E’ il primo verso latino il cui contenuto mi stia vivo davanti agli occhi; e nel momento che il vento diventa sempre più forte e il lago batte l’approdo con onde sempre più alte, è vero ancor oggi come tanti secoli fa. Molte cose sono cambiate, ma il vento agita ancora il lago, e lo spettacolo che si gode è ancor sempre nobilitato da un verso di Virgilio. Scritto al quarantacinquesimo grado e cinquanta minuti primi di latitudine.

Sono andato a passeggio nella frescura serale, ed è proprio un paese nuovo, un ambiente affatto diverso quello in cui mi trovo adesso. La gente vive una vita rilassata, noncurante: prima di tutto le porte non hanno serrature, ma l’oste mi assicurò che potevo star tranquillo, anche se tutto il mio bagaglio fosse consistito di diamanti; in secondo luogo le finestre sono chiuse da carta oleata anzichè da vetri; infine manca una comodità molto importante, dimodochè si è abbastanza prossimi allo stato di natura. Quando chiesi al servo come soddisfare una certa necessità, egli accennò al cortile di sotto: “Qui abasso può servirsi!”. Io gli domandai: “ Dove?”.”Da per tutto, dove vuol!” rispose cortesemente. In ogni cosa manifesta qui la massima trascuratezza, ma anche molta vitalità e operosità. Tutto il giorno si ode tra le vicine un cicalare, un gridare, e nello stesso tempo tutte hanno da fare qualcosa, da attendere a qualcosa. Non ho ancora visto una donna starsene in ozio. Con enfasi italiana l’oste mi annunziò che era felice di potermi servire una trota squisitissima. Le pescano vicino a Torbole, dove il torrente scende dalla montagna e i pesci tentano di risalire la corrente. L’imperatore ricava da questa pesca diecimila fiorini di appalto. Non sono come le nostre trote: sono grosse, pesano a volte anche cinquanta libbre e sono punteggiate lungo tutto il corpo fino alla testa; il sapore sta fra la trota e il salmone, ottimo e delicato. Ma la mia Vera delizia sono le frutta, i fichi e anche le pere, che qui, dove già crescono i limoni, devono essere eccellenti.  …

E parliamo ora della traversata del lago! Essa si compì felicemente, deliziato come ero in cuore dalla stupenda vista dello specchio acqueo e della riva bresciana che lo costeggia.Là dove a ponente, la montagna non cade più a picco e il paesaggio declina più dolcemente verso il lago, si allineano, per un certo tratto di circa un’ora e mezzo, Gargnano, Bogliaco, Cecina, Toscolano, Maderno, Verdom, Salò anch’essi quasi tutti distesi in lunghe file di case. Non c’è parola che esprima l’amenità di questa contrada fittamente popolata.”

 

(da “Viaggio in Italia” di J.W.Goethe)

 

“Fluctibus et fremitu resonans Benace marino” Virgilio e Goethe dialogano sull’Italia

Publio Virgilio Marone, Georgiche, Libro II, vv. 136 – 176
Sed neque Medorum silvae, ditissima terra,
nec pulcher Ganges atque auro turbidus Hermus
laudibus Italiae certent, non Bactra neque Indi
totaque turiferis Panchaia pinguis harenis.
Haec loca non tauri spirantes naribus ignem
invertere satis immanis dentibus hydri,
nec galeis densisque virum seges horruit hastis;
sed gravidae fruges et Bacchi Massicus umor
implevere; tenent oleae armentaque laeta.
hinc bellator equus campo sese arduus infert,
hinc albi, Clitumne, greges et maxima taurus
victima, saepe tuo perfusi flumine sacro,
Romanos ad templa deum duxere triumphos.
hic ver adsiduum atque alienis mensibus aestas:
bis gravidae pecudes, bis pomis utilis arbos.
At rabidae tigres absunt et saeva leonum
semina, nec miseros fallunt aconita legentis,
nec rapit immensos orbis per humum neque tanto
squameus in spiram tractu se colligit anguis.
adde tot egregias urbes operumque laborem,
tot congesta manu praeruptis oppida saxis
fluminaque antiquos subterlabentia muros.
An mare quod supra memorem, quodque adluit infra?
anne lacus tantos? te, Lari maxime, teque,
fluctibus et fremitu adsurgens Benace marino?
an memorem portus Lucrinoque addita claustra
atque indignatum magnis stridoribus aequor,
Iulia qua ponto longe sonat unda refuso
Tyrrhenusque fretis immittitur aestus Avernis?
haec eadem argenti rivos aerisque metalla
ostendit venis atque auro plurima fluxit.
haec genus acre virum, Marsos pubemque Sabellam
assuetumque malo Ligurem Volscosque verutos
extulit, haec Decios Marios magnosque Camillos,
Scipiadas duros bello et te, maxime Caesar,
qui nunc extremis Asiae iam victor in oris
imbellem avertis Romanis arcibus Indum.
Salve, magna parens frugum, Saturnia tellus,
magna virum: tibi res antiquae laudis et artis
ingredior sanctos ausus recludere fontis,
Ascraeumque cano Romana per oppida carmen
 

Ma né le foreste dei Medi, terra ricchissima,
né il bel Gange e l’Ermo intriso d’oro
potrebbero gareggiare con i pregi dell’Italia;, né Bactra né l’India né tutte le fertilissime terre della turifera Pancaia
Queste nostre terre, non sono state arate da tori spiranti fuoco dalle narici, né rivoltate dai denti di un drago immane, né una schiera di uomini si  irta di elmi e di fitte aste; ma le hanno ricoperte messi fruttuose e il vino  di Bacco, il “Massico” e le occupano uliveti e lieti armenti.
Da qui il cavallo da guerra va in campo spavaldo a testa alta, da qui, o Clitunno, le bianche greggi e il toro, vittima massima, bagnati spesso nelle tue sacre acque, hanno condotto i trionfi romani fino ai templi degli dei.
Qui c’è una persistente primavera, e per alcuni mesi, l’estate; le femmine delle mandrie due volte restano pregne e due volte gli alberi danno utili frutti.
Non vi sono tigri feroci né razze di orrendi leoni feroci, né  piante velenose ingannano i miseri raccoglitori,
 né lo squamoso serpente trascina le sue immense volute attraverso la terra né si stringe in una spira di notevole ampiezza. Aggiungi tutte le belle città e la laboriosità delle costruzioni, tutte città edificate dalla mano dell’uomo con pietre squadrate su scoscesi dirupi e fiumi che lambiscono le mura antiche.
E dovrei ricordare sia gli argini elevati intorno al lago Lucrino, o il mare spumeggiante dai forti fragori, o Iiulia  che da lontano si ode per l’echeggiare del mare o i marosi del Tirreno che immettono negli antri dell’Averno?
Questa stessa terra mostra miniere di argento e di rame abbondantissima ha stillato oro dalle vene. Questa ha generato robuste stirpi di forti uomini: i Marsi e i giovani Sabelli e i sani Liguri  e i Volsci, grandi arcieri.
questa generò anche i Deci, i Mari e i grandi Camilli e i restanti Scipioni durante la guerra, e te o grandissimo, già vincitore in Oriente, tieni lontano l’imbelle Indo dalle rocche romane.
Salve o terra di Saturno, grande madre di messi e di eroi: per te mi accingo a rivelare i segreti della tua antica arte gloriosa, osando schiudere le sacre sorgenti (della poesia Georgica), e per le rocche romane canto un carme ascreo.

“Le affinità elettive”


“Che cosa s’ intende precisamente per affinità?
….Le nature che incontrandosi si avvincono subito, determinandosi reciprocamente, si chiamano affini: Negli alcali e negli acidi, i quali, benchè opposti e forse appunto perché opposti, si cercano e si legano nel modo più deciso, modificandosi e formando un corpo nuovo, l’affinità è davvero sorprendente ….
…le affinità diventano veramente interessanti quando producono delle separazioni …
…I casi più notevoli e interessanti sono appunto questi, che possono darci rappresentazione reale dell’attrazione, dell’affinità, di questa specie d’incrocio nell’abbandonarsi e congiungersi.”

tratto da:. “Le affinità elettive”,Goethe, BUR,1991 pagg. 109-114

“Lei immagini un A che è intimamente congiunto con un B, tanto che molti espedienti e molte forze non riescono a separarlo; immagini un C che si comporta allo stesso modo rispetto a un D: ora porti in contatto le due coppie: A si getterà su D e C su B, senza che si possa dire quale per primo abbia abbandonato l’altro, quale per primo si sia di nuovo congiunto con l’altro. (BUR, pag. 116)
“Ma a Goethe premeva soprattutto la seconda conseguenza. Scrivendo Le affinità elettive, egli suppose che le inclinazioni e le passioni umane siano rette dalla stessa necessità naturale che produce il fiore della rosa o una combinazione chimica. All’inizio abbiamo una coppia: Eduard e Charlotte.

“Quando entra in contatto col Capitano e con Ottilie, questa coppia si dissolve; e nascono le due nuove coppie, formate da Eduard e da Ottilie ….la formazione delle due coppiesegue il medesimo processo di quello seguito dalle quattro sostanze. Nell’istante in cui Eduard (B) bacia Ottilie (D), il Capitano (C) bacia Charlotte (A), ‘senza che si possa dire quale per primo abbia abbandonato l’altro, quale per primo si sia di nuovo congiunto con l’altro’. Ma c’è di più. La passione che stringe Eduard e Ottilie non è uno slancio del cuore, ma un’attrazione magnetica: una forza fatale e meccanica, come è fatale e meccanica la forza che lega il calcare e l’acido solforico e li trasforma in gesso”.

tratto da: Piero Citati nell’introduzione al romanzo (BUR, 1991, , pag. 32)

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